“I dati Ocse Pisa ci consegnano una scuola “fanalino di coda”, proprio nel momento in cui il Paese, anche per uscire dalla pesante crisi economica che lo sta attraversando, ha bisogno di aumentare la propria competitività, investendo in conoscenza, cultura, innovazione e ricerca scientifica. Tali dati, nel Mezzogiorno, assumono un significato ancora più allarmante, mostrando criticità non trascurabili. Nei primi 130 anni dall’Unità cinque sono state le riforme e i provvedimenti principali che hanno interessato la scuola italiana fino agli inizi del 1990. Nell’ultimo ventennio, poi, si sono succeduti tanti ministri all’Istruzione che hanno introdotto visioni diverse della scuola, dando vita ad un susseguirsi confuso di riforme e controriforme”.
Lo ha dichiarato il Presidente della Provincia di Potenza Piero Lacorazza, intervenendo a Montemurro alla manifestazione che, nell’ambito delle celebrazioni per i 150 anni dall’Unità d’Italia, ha voluto ricordare la figura di Giacinto Albini, insediatosi il 7 settembre 1860 come Governatore della Provincia di Basilicata e personaggio chiave del Risorgimento lucano.
“I problemi che vive oggi la scuola, di cui l’emergenza precari rappresenta una delle più tangibili e preoccupanti manifestazioni, vengono da molto lontano e, con un’attenta rilettura dei 150 anni di vita unitaria del Paese, le cause potrebbero essere rintracciate – ha continuato Lacorazza – anche attraverso il difficile rapporto tra popolo e territorio, come ad esempio quello che caratterizza una regione grande come la nostra (10 milioni di chilometri quadrati), dove una popolazione piccola (600 mila abitanti) è dispersa in 131 comuni. E ancora attraverso lo scollamento tra classi sociali e tra città e periferie che si determinò all’indomani dell’Unità e che, oggi, continua ad essere uno degli effetti più critici della cosiddetta “Riforma Gelmini”.
L’istruzione scolastica rappresentò, sin da subito, una delle principali preoccupazioni del nuovo Stato unitario: dalla legge Casati (che rendeva obbligatoria la frequenza scolastica), già approvata in Piemonte nel 1859 e successivamente estesa a tutto il territorio nazionale, alla legge Coppino del 1877, che introduce una differenza nell’obbligo scolastico tra città più grandi (fino a 5 anni) e quelli minori (fino a 3). A quei tempi le gravi difficoltà finanziarie dei singoli comuni ostacolarono la crescita delle istituzioni educative, soprattutto al Sud. Un problema, questo, che nel periodo giolittiano, cercò di aggirare la legge Daneo-Credaro del 1911, attribuendo allo Stato il costo della gestione delle scuole elementari. Tutti questi provvedimenti – e in seguito la nota Riforma Gentile del 1923 e la Carta della Scuola, voluta da Giuseppe Bottai e che prevedeva una divisione delle scuole elementari in “urbane” e “rurali”, con tutte le penalizzazioni immaginabili per quest’ultime – non compresero fino in fondo le esigenze delle singole aeree del Paese ed ebbero come comune denominatore quello di favorire la separazione tra classi sociali e territori, introducendo un primo elemento di distorsione nella visione della scuola e dell’istruzione, destinato a ripresentarsi, sotto diverse forme, nelle varie tappe che hanno caratterizzato il lungo processo di riforma di questa importante istituzione, fino agli ultimi e dibattuti provvedimenti governativi sulla scuola. Nel corso degli anni, dunque, il tentativo di dare una nuova e coerente forma alla scuola italiana si è scontrato con l’effetto di aumentare, anziché ridurre, il divario esistente tra città e periferie, tra nord e sud e tra classi sociali differenti. Un aumento confermato dalla statistica che, a più di mezzo secolo dall’unificazione, disegnava ancora un quadro fosco per quanto riguarda l’analfabetismo, lontano dall’essere debellato soprattutto al Sud e in particolare in Basilicata, dove nel 1921 la percentuale di analfabeti si attestava al 52 per cento, meglio solo di quella della Calabria (53 per cento). Percentuali che si spiegano con il persistere, a 70 anni dall’Unità, di alcuni limiti alla diffusione dell’istruzione come la mancata percezione della scuola, da parte delle classi meno abbienti, come strumento di educazione ed elevazione sociale o i gravi ostacoli di tipo logistico e pratico, che rendevano difficoltoso, ad esempio, trovare i docenti per le scuole primarie di periferie. Scuole che presentavano condizioni deplorevoli e scarse remunerazioni finendo per scoraggiare i maestri della ricca borghesia. Il pericolo oggi in agguato è quello di un’istruzione, una formazione e un sapere che non aiutino la coesione del Paese né il processo di mobilità sociale. La storia corre il rischio di ripetere e di accentuare le proprie criticità che, al di là del colore politico, anche nell’attualità dei provvedimenti sulla scuola, potrebbero avere l’effetto di marginalizzare sempre di più il Mezzogiorno. Oggi, dunque, è necessario ripensare e rafforzare l’istruzione, la formazione e il sapere, affinché siano in grado di accompagnare l’Italia unita in Europa e nel mondo”.
“Riflessioni, queste, che inducono a dare alla celebrazioni per i 150 anni dell’Unità una chiave di lettura centrata sulle grandi traiettorie di sviluppo, dalla scuola alle infrastrutture, passando per quelle trasformazioni del territorio causate dai diversi sismi. Ripercorrere 150 anni di storia – ha concluso Lacorazza – è mettersi in cammino verso il futuro, se saremo in condizione di scalzare i luoghi comuni di parte dell’opinione pubblica, le derive faziose delle classi dirigenti e i coloriti detrattori dell’Unità d’Italia. Questi 150 anni di storia, e di storie, sono utile alimento per l’elaborazione di un pensiero nuovo del nostro Paese, del Mezzogiorno, della Basilicata, in uno scenario geopolitico ricco di insidie e di opportunità. Pensiamo all’Europa, all’area del Mediterraneo e alla sua perenne conflittualità culturale, etnica e religiosa, dalle ricadute politico-economiche non irrilevanti. “Se 150 anni fa l’Italia politica si unì dentro l’Italia”, oggi l’Italia deve essere unita all’interno del mondo”.