Pubblichiamo il fondo del Prof. Stelio Mangiameli, Docente di Diritto Costituzionale Università di Teramo e Direttore dell’Istituto di studi sui Sistemi Regionali e sulle Autonomie del Cnr, uscito sul quotidiano “Il Riformista” il 15 settmbre 2011
“Mentre domenica sul Corriere della Sera l’editoriale di Ferruccio De Bortoli richiamava all’orgoglio nazionale, in Germania su Die Welt era pubblicata una lettera aperta su quattro colonne: “Cari Greci, Cari Italiani”, con la quale si spiegavano le ragioni delle insofferenze tedesche di fronte ai costi della crisi dell’euro e si chiedeva a greci e italiani una chiara assunzione di responsabilità. La lettera, pubblicata sui giornali greci, ma non su quelli italiani, denunciava due aspetti della vicenda italiana. L’assoluto disprezzo per il pagamento delle tasse da parte dei cittadini e il comportamento irresponsabile dei parlamentari, che “non sono stati pronti ad accettare un taglio più grosso dei loro stipendi, sebbene facciano parte dei politici più cari d’Europa”. Visto in una prospettiva esterna il nostro Paese non è apparso mai così incapace di assumere decisioni pubbliche efficaci come in questo momento. Secondo Goldmann Sack l’Italia è più indietro persino della Grecia, anni luce lontano da Irlanda e Spagna.
Da anni scrivo (e parlo) di una “sovranità debole” del nostro Paese, della necessità di mettere in ordine la Costituzione e la legislazione, senza passare da una fiducia all’altra su finanziarie e decreti legge mostri, difficili da interpretare persino per gli addetti ai lavori.
Da dieci anni abbiamo varato la riforma del titolo V sul c.d. federalismo. Ebbene, è un pantano. Nessuna scelta conseguente, nessun atto è stato assunto dai Parlamenti e dai Governi che si sono susseguiti. Ed è già palese come neppure la legge sul federalismo fiscale sia in grado di fare ripartire il sistema.
Le competenze dello Stato e delle Regioni sono nel caos. I ministeri invece di chiudere, per via del passaggio dei poteri alle Regioni, aprono sedi al Nord la cui funzione ai più è ignota. Le Regioni, anziché agire con responsabilità statuale, come dovrebbe essere in un sistema federale, si comportano come fossero grandi enti locali: moltiplicano le sedi di gestione, creando enti, società, consorzi e agenzie in una misura scandalosa. I calcoli per difetto ci dicono che, escludendo la sanità, stiamo parlando di oltre 5.000 soggetti.
Nessuno sa perché le città metropolitane non sono state costituite; perché la Carta delle autonomie che prevede una semplificazione delle funzioni pubbliche, secondo il principio del livello di governo ottimale, non sia stata più approvata. Ne’ ci si pone il problema del coordinamento tra i diversi livelli di governo e la riforma del Parlamento, con la riduzione del numero dei parlamentari, è rinviata da una legislatura all’altra senza soluzione di continuità.
Così, nei momenti di crisi vengono fuori le proposte più estemporanee, come la fusione per legge dei piccoli comuni e la soppressione delle province, che dovrebbero diventare il punto dirimente per rassicurare i mercati.
Ma se stiamo ai dati, la soppressione delle Province, se si farà, non comporterà certo una reale riduzione della spesa pubblica: su oltre 850 miliardi di euro di spesa pubblica italiana, circa 600 li spende lo Stato, più di metà per la previdenza e il resto per i suoi apparati amministrativi. 104 miliardi pesa la sanità, 70 miliardi le Regioni, 70 i comuni e 13 le province. Anzi, è probabile che si determini un aumento dei costi, non solo perché qualcuno deve gestire le funzioni in atto svolte dalle province, ma soprattutto in quanto il livello provinciale è necessario ad una logica di equilibrio del governo del territorio. Basti considerare che esiste in ogni paese europeo di ampie dimensioni. Con una composizione simile della spesa pubblica l’idea della soppressione delle province è una furbata e l’Europa è stanca della furbizia italica.
Invece andrebbe affrontato seriamente il tema del dimensionamento di regioni, province e comuni, un problema reale che ha bisogno di soluzioni serie. In tal senso, in primo luogo, non è più rinviabile la riforma del Parlamento che deve realizzare la riduzione del numero dei parlamentari e la diversificazione nella composizione, con la Camera delle regioni e delle autonomie locali, e deve introdurre anche una moderazione delle spese. In secondo luogo, si devono chiarire le funzioni dello Stato e delle Regioni. Dalle regioni ci si aspetta che ragionino come uno Stato e non come un ente locale: facciano leggi e programmazione e smettano di gestire competenze che vanno demandate alle autonomie locali. Si chiudano ministeri ed enti regionali. La ragione vuole che le province siano potenziate, demandando a queste la maggior parte delle funzioni svolte dagli uffici periferici dello Stato e affidando loro la gestione delle reti e dei servizi pubblici locali. I comuni, 8100, la maggior parte polverizzati nel territorio, si associno per svolgere le funzioni comunali, e dove ciò non sia possibile si faccia intervenire in via sussidiaria la provincia.
Una riforma semplice, poco costosa ed efficace del sistema di governo del territorio è possibile e si può fare subito. Occorre solo un po’ di serietà e di buona volontà”.